Di tutte le razze canine le cui radici affondano nella pratica venatoria, il Bracco Italiano si annovera senza dubbio tra le più antiche ma anche tra quelle conservatesi più fedeli alla finalità per la quale sono state create e nella quale, ancora oggi, la maggior parte dei suoi esponenti ritrova sè stesso.
Ciò lo si deve ad una grandiosa opera di selezione, cominciata nella notte dei tempi e tra alti e bassi mai interrotta che, di concerto ad una diffusione della razza contenuta all’interno di un’élite ristretta di appassionati, ha saputo mantenere integre le caratteristiche morfologiche, psico-attitudinali e stilistiche imprescindibili per lo svolgimento ottimale della caccia con questo particolare cane da ferma.

Pensiamo alla struttura fisica solida e compatta, funzionale al famigerato movimento al trotto come il tartufo lo è all’aggancio dell’emanazione. All’adattabilità, alla resistenza fisica e la stoicità davanti al dolore. Alla naturale predisposizione alla ferma e al riporto. Alla bassissima aggressività intraspecifica.
Ma soprattutto al grande istinto predatorio che lo anima e nel quale sopravvive il carnivoro primordiale al quale il bracco deve l’essenza.
E’ su questo aspetto infatti che si focalizza chi necessita di un buon compagno di caccia ma, sempre più spesso, anche chi valuta il Bracco Italiano mentre è alla ricerca di un buon cane da guardia o al contrario, chi lo esclude a priori, reputandolo inadatto ad un contesto familiare variegato, pensando che l’indole del cacciatore possa rappresentare il trampolino di lancio per un’aggressività generalizzata.


Ebbene, a meno che non pensiate di poter essere derubati da piccola selvaggina alata, che i vostri figli non somiglino a una starna o vostra suocera non appartenga alla categoria degli ungulati, vi sbagliate di grosso: il Bracco Italiano è in assoluto uno dei cani meno aggressivi, meno territoriali (e oltretutto facilissimo da corrompere), nonchè tra i più propensi a stringere legami profondi ed equilibrati con l’uomo, i propri conspecifici e – se adeguatamente gestiti – gli altri eventuali animali di casa (iguane ok, gatti insommina, se optate per un coniglio magari non vi ci affezionate).
E per quanto possa sembrare strano, anche questi aspetti sono naturale conseguenza della selezione finalizzata alla creazione del cane da caccia ideale, intrapresa dall’uomo all’incirca 15mila anni fa quando, inaspettatamente, si unì al lupo in un sodalizio che è stato alla base dell’evoluzione di entrambi.
Infatti, se la reciproca vicinanza ha declinato il Canis Lupus nelle centinaia di varianti di Canis Lupus Familiaris che conosciamo, la stessa si rivelò fondamentale anche per il divenire dell’Homo sapiens sapiens che grazie all’addomesticamento del proto-cane potè abbandonare la vita da nomade, stabilizzarsi ed iniziare ad allevare bestiame, coltivare la terra e prosperare a fronte di un vantaggio evolutivo senza precedenti: le capacità di un superpredatore al proprio servizio.
Poter cacciare al fianco di un carnivoro dotato di un olfatto finissimo, resistente e capace di instaurare ed inserirsi in dinamiche sociali permetteva all’uomo di incrementare le probabilità di successo ad ogni uscita, risparmiare preziosa energia e ambire a prede di notevoli dimensioni che il lupo localizzava, inseguiva, immobilizzava per poi ucciderle e cibarsene.
Fu proprio alterando gli step della sequenza di cattura e consumo per enfatizzarli (cerca e seguita/guidata), inibirli (indicare il selvatico invece di aggredirlo) o eliminarli del tutto (nutrirsi della preda), che l’uomo riuscì a creare degli ausiliari specializzati in diverse tipologie di caccia, selvaggina e territori accomunati però da un’indole primordiale alla quale dovevano necessariamente accompagnarsi altre doti quali l’addestrabilità, l’equilibrio psico-fisico, la resistenza, la scarsa aggressività verso altri cani coi quali dovevano condividere cibo e spazi, l’autonomia ma anche la capacità di lavorare in gruppo, nonchè la docilità nei riguardi dell’uomo e la predisposizione a lavorare per lui.



Dopo molte generazioni di uomini e cani si distinsero i Levrieri: nati per (rin)correre; i Bassotti e i Terriers: piccoli ma così agguerriti da infilarsi nelle tane di volpi e tassi per farli rimpiangere di essere nati; i Segugi (Italiano, Beagle, gli -Hounds): primitivi, indipendenti ma fortemente sociali; i cani da ferma (Bracchi, Setter, Breton): inibiti all’attacco della preda ed estremamente versatili; i cani da cerca e riporto (Cocker, Labrador, Retrievers): specializzati nel mostrare tutta la loro devozione recuperando la preda per offrirla al cacciatore.
Sottogruppi estremamente eterogenei ma appartenenti alla stessa costellazione, all’interno dei quali ritroviamo moltissime razze largamente diffuse e apprezzate anche da chi oggi, con la caccia, non vuole aver niente a che fare.
Coincidenze? Io non credo.


Detto questo, si può garantire che nessun cane da caccia mostri atteggiamenti aggressivi in nessuna circostanza mai? Certo che no.
In fondo l’aggressività non è che una modalità di espressione, una risposta naturale stimolata da paura, disagio, dominanza, istinto di protezione del territorio o dei cuccioli, che mira alla conservazione dell’individuo, quindi della specie, ed è inclusa di default nel kit di sopravvivenza di tutti gli esseri viventi.
Non bisogna dimenticare poi che i cani in quanto esseri senzienti, percepiscono e si relazionano con la realtà che li circonda secondo la propria natura, la memoria di razza, l’età, il sesso ma anche l’educazione e le esperienze di vita vissute, ergo il loro equilibrio non smette mai di essere una nostra responsabilità.
Sta di fatto che nel Bracco Italiano, il consolidamento dell’attitudine venatoria e delle inclinazioni caratteriali ad essa funzionali sia andato a discapito di quelle potenzialmente limitanti come la territorialità o la possessività, rendendolo un cane estremamente mite e riflessivo, difficilissimamente problematico o rissaiolo.


L’istinto predatorio infatti non lo predispone in nessun modo all’aggressività, dalla quale si distingue negli intenti e nelle manifestazioni dato che, come spiega benissimo quel gran premio Nobel di Konrad Lorenz ne ‘L’aggressività’: “la motivazione interna dei gesti, dal punto di vista della fisiologia del comportamento, è fondamentalmente diversa nel cacciatore e nel combattente. Il bufalo non suscita l’aggressività del leone che lo abbatte […]. Già nei movimenti espressivi di un animale si può leggere chiaramente la diversità degli impulsi interni. Il cane che si slancia su una lepre colmo di passione venatoria, assume la stessa espressione, fra l’ansioso e il felice, con la quale saluta il suo padrone o aspetta avvenimenti desiderati.”


Per questo è importante non confondere i due concetti. Ma ancor di più lo è comprendere il peso che la selezione a scopo venatorio ha avuto nel dar vita a più razze di quante ne immaginiamo e del ruolo fondamentale che ancora svolge per mantenerne in vita alcune che senza di essa, perderebbero la propria identità.
Perchè è la funzione che fa la razza, determinandone la morfologia, l’indole e l’avvenire.
Per il Bracco Italiano, prescindere da questa significherebbe separarlo dalla sua ombra, rischiando che di lui rimanga solo quella.